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Hermann Hesse: "Iris"

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Hermann Hesse: "Iris"
La copertina tedesca del racconto

Il racconto "Iris": una fuga dalla realtà?

Ho letto la bella favola "Iris" con molto piacere, ma alla fine sono rimasto colpito, quasi scioccato, dalla semplice nota finale: "scritto nel 1918". Com'è possibile - pensavo - che un uomo sensibile ed intelligente come Hermann Hesse scrive un racconto così poetico e delicato, che ci vuole riportare nel periodo innocente e quasi paradisiaco della nostra infanzia, in un momento - cioè nel 1918 - in cui l'Europa stava appena uscendo dal periodo più crudele e sanguinoso che aveva mai vissuto: la Prima Guerra Mondiale.

Hesse si era opposto fin dall'inizio a questo assurdo massacro, anche perché era rimasto coinvolto fino al collo in questa tempesta di violenza e di inumanità: aveva lavorato per alcuni anni in un lazzaretto per soldati tedeschi e lì ha certamente visto il lato peggiore di quella guerra, deve aver visto degli uomini che avevano toccato il fondo del carattere umano, tutte le bestialità di quella guerra, il trasformarsi dell'uomo in animale che cerca solo di uccidere e di sopravvivere: tutte queste cose Hesse le ha viste molto da vicino. E nonostante ciò scrive delle frasi che sono tra le più belle e direi quasi "poeticamente gustose" della letteratura tedesca di questo secolo. Si trattava forse di una semplice fuga dalla realtà? Un tentativo di esorcizzare la realtà tramite la poesia?

Forse c'era anche questo. Ma certamente la molla principale per Hesse era la sua testardaggine con cui, per tutta la sua vita e anche nei momenti più critici, rimase fedele alla sua utopia. Forse nei momenti più disperati sentì ancora più fortemente il bisogno di sottolineare il grande ideale di una umanità ancorata nell'amore e nella fratellanza.

Hesse è stato delle volte criticato per essersi rifugiato nella "torre d'avorio della poesia" e di evitare il confronto diretto con la realtà. È un'accusa ingiusta, soprattutto se si prende in considerazione la grande quantità di esternazioni su guerra e pace, non solo nelle sue lettere private, ma anche in articoli pubblicati e recensioni letterarie.

Hermann Hesse e Bertolt Brecht:

A questo proposito è interessante un confronto con il collega ed antagonista letterario Bertolt Brecht. Questi due grandi autori tedeschi del secolo scorso si trovano, direi, quasi agli antipodi dell'esperienza letteraria. Brecht disse una volta in una sua poesia:

In me si combattono
L'entusiasmo per il melo in fiore
E il terrore per i discorsi dell'imbianchino.
(Brecht si riferisce a Hitler)
Ma solo il secondo
Mi spinge alla scrivania.


e in un'altra poesia dice:

Che tempi sono questi in cui
Un discorso sugli alberi è quasi un reato
Perché comprende il tacere su così tanti crimini!
Noi, che volevamo preparare il terreno per la gentilezza
Noi non potevamo essere gentili.


In queste righe traspaiono, oltre all'evidente diversità di vedute tra Hesse e Brecht, anche delle cose che invece li accomunano: entrambi erano utopisti, entrambi grandi moralisti, entrambi avevano la tendenza a semplificare le cose. Una tendenza forse necessaria per tenere in piedi una grande utopia. E nell'epoca di oggi, in cui viviamo l'appiattimento delle grandi idee che sembra voler costringere tutti a un qualunquismo generalizzato, abbiamo bisogno, secondo me, sia di Hesse, sia di Brecht. Nessuno dei due si riteneva un profeta infallibile, entrambi sottolineavano sempre l'importanza della continua ricerca della verità, della necessità del cambiamento, del dubbio, dell'eterno divenire. Abbiamo bisogno di Hesse, per non perdere mai di vista la spiritualità, ma abbiamo anche bisogno di Brecht per rimanere con i piedi per terra.

Sia Hesse che Brecht spingono sempre a riflettere criticamente su se stessi e sull'epoca in cui viviamo. E questa è forse la cosa più bella e importante che uno scrittore può augurarsi.

Wolfgang Pruscha
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