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Bambini a Auschwitz, dopo la liberazione
Bambini a Auschwitz, dopo la liberazione
fonte della foto: ZDF
Tesi di laurea di Daniela Rita Mazzella.
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Informazioni generali:

L'abstract della tesi:

L'idea del presente lavoro nasce dal desiderio di approfondire un argomento che da sempre mi affascinava e allo stesso tempo mi spaventava: l'antisemitismo e l'uso che ne fu fatto da Hitler con le sue tremende conseguenze, con un occhio particolare verso quelle che furono forse le vittime più indifese: i bambini.

Il lavoro inizia con un discorso generale sul fenomeno dell’antisemitismo europeo, sfociato in Germania con l’ascesa del Terzo Reich: il sentimento di ostilità nei confronti della popolazione ebraica, spiegato dapprima con motivazioni religiose, poi di carattere economico e da secoli radicato nella storia europea, nonostante i tentativi di emancipazione, raggiungeva qui il suo massimo sviluppo, diventando “ideologia antisemita” soprattutto perché si incontrava con una personalità, quella di Hitler appunto, che convinto della superiorità del popolo germanico e della conseguente inferiorità di quello ebraico, imperniò la sua ideologia e il suo programma di governo sulla necessità di eliminare la popolazione ebraica.

Il particolare aspetto della vicenda ebraica che ho scelto di approfondire riguarda la persecuzione dei bambini e dei giovani ebrei da parte del nazismo: pochi quelli che riuscirono a superare, nascosti, il pericolo hitleriano grazie a famiglie ariane “coraggiose” che si presero cura di loro o a organizzazioni che si occuparono di trovare loro una sistemazione; tanti, invece, quelli che furono catturati e mandati dapprima nei ghetti e poi nei lager, dove erano i primi ad essere eliminati nelle camere a gas, non potendo dare alcun contributo alla macchina da guerra tedesca.

Di fronte all’esperienza vissuta dagli ebrei durante la II Guerra Mondiale, assume un’importanza essenziale la memoria di tali esperienze, soprattutto la testimonianza di chi è riuscito a sopravvivere per dare voce anche ai milioni di persone che invece non ci sono più. Per i sopravvissuti non è stato sempre facile rielaborare e raccontare la loro esperienza: specialmente nel dopoguerra essi erano divisi tra la necessità di raccontare per liberarsi dall’orrore vissuto e l’impossibilità di riuscire a trovare parole adeguate per esprimere tanta violenza e disumanità. E così la maggior parte di essi ha impiegato molti anni per rielaborare il trauma vissuto e per trovare la forza di raccontarlo. Un aspetto importante di simili memorie è costituito dalla rappresentazione che ne viene fatta: le testimonianze dei sopravvissuti da un lato hanno alimentato una ricca e autentica memorialistica, dall’altro hanno anche contribuito alla formazione di un certo tipo di finzione letteraria che nell’ambito della cosiddetta “letteratura della Shoah” riveste comunque una particolare importanza, perché laddove gli autentici testimoni tendono sempre più a scomparire a causa di un evidente limite biologico, tale finzione rappresenta l’unico mezzo attraverso il quale possiamo ancora accostarci a questo evento.

Di qui la scelta di analizzare due diversi tipi di testimonianze: da una parte l’autobiografia di Cordelia Edvardson, una delle voci più significative della memorialistica della Shoah, dall’altra l’opera di Binjamin Wilkomirski che, pur essendo stato accolto in un primo momento come esempio di questo tipo di scrittura, in realtà rientra nella tanto discussa finzione letteraria.

Cordelia Edvardson è un ebrea tedesca nata a Monaco nel 1929, figlia della scrittrice tedesca Elisabeth Langgässer. Nella sua autobiografia, tradotta in tedesco con il titolo Gebranntes Kind sucht das Feuer, la scrittrice mostra la sua condizione di doppia diversità, legata al fatto di essere figlia illegittima e di avere un padre ebreo, e l’inevitabile sbocco della sua diversità, il campo di concentramento. La sua opera mostra il percorso di ricostruzione della sua identità di vittima della Shoah, un percorso che significa anche una ricostruzione della sua vicenda familiare e del rapporto con sua madre. La Edvardson mostra, nella sua autobiografia anche l’altrettanto difficile esperienza del ritorno ad una vita normale: gli anni trascorsi nella neutrale Svezia e il suo disagio provato a contatto con una tranquillità che ella sente come falsa e innaturale e la conseguente decisione di trasferirsi in Israele, dove la scrittrice, ritrovando le proprie radici ebraiche, riesce anche a riconciliarsi con il suo passato e con il suo rapporto con la madre.

Nel suo romanzo Bruchstücke. Aus einer Kindheit 1939 – 1948, pubblicato nel 1995, Binjamin Wilkomirski racconta la sua presunta esperienza di bambino sopravvissuto a due campi di concentramento, portato in Svizzera e qui adottato. Il libro riscosse enorme successo e l’autore fu innalzato a rappresentante di tutti i bambini la cui infanzia era stata rubata dagli orrori nazisti. Tuttavia poco dopo la pubblicazione di quest’opera alcune rivelazioni portarono alla scoperta che il vero nome dell’autore non era Binjamin Wilkomirski bensì Bruno Grosjean, e che tale autobiografia era una sua totale invenzione. Tale scoperta trasformò questo grande successo letterario in uno scandalo e furono necessarie delle indagini per ricostruire l’intera vicenda. Alcune di esse misero in evidenza la difficile infanzia dell’autore nel cui gesto non ci sarebbe stato l’esplicito ed esclusivo tentativo di ingannare il pubblico ma anche la necessità di costruire un personaggio, “Binjamin Wilkomirski”, per osservare con distanza la sua difficile esperienza di bambino sofferente. Di qui la sua scelta di utilizzare lo sfondo estremo della Shoah come metafora della sua difficile infanzia.

Si può facilmente intuire che non è facile mettere a confronto due "autobiografie" tanto diverse, anche perché non si tratta semplicemente di confrontare un’autentica testimonianza (quella della Edvardson) con un esempio di finzione letteraria (quello di Wilkomirki): l’autobiografia di Wilkomirski, per quanto sia un’invenzione, presenta molte più somiglianze con la reale esperienza di Bruno Grosjean di quanto si possa immaginare. La conclusione che si può trarre è che Bruno Grosjean, non riuscendo ad elaborare la sua esperienza di figlio illegittimo, ci ha raccontato la sua biografia non come essa è realmente documentata, ma piuttosto come lui l’ha vissuta. In questo senso si possono cogliere delle somiglianze biografiche tra Cordelia Edvardson e Bruno Grosjean, specialmente se consideriamo che entrambi non hanno mai conosciuto la figura paterna ed hanno vissuto per un periodo troppo breve della loro vita con la madre. Entrambi quindi sono cresciuti in contesti familiari diversi da quelli tradizionali che non hanno saputo dare loro il sostegno e la protezione indispensabili per lo sviluppo di bambino.

L’apice di questa vicenda familiare è stata per la Edvardson l’esperienza della deportazione, esperienza che è stata invece utilizzata, strumentalizzata da Bruno Grosjean per raccontare la sua personale sofferenza; entrambi a distanza di molti anni hanno scelto di narrare attraverso l’autobiografia la loro vita che, anche se per motivi diversi, hanno ugualmente definito “un insieme di cocci” tentando in questo modo di ricostruirne l’unità.

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Vedi anche:

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